La campagna "Salviamo la ricerca italiana" nasce a seguito della lettera che 69 scienziati italiani, tra cui Giovanni Ciccotti, Duccio Fanelli, Vincenzo Fiorentini, Giorgio Parisi e Stefano Ruffo, hanno inviato all'autorevole rivista scientifica Nature e su di essa pubblicata il 4 Febbraio 2016.
Nella lettera gli scienziati invitano l'Unione Europea a fare pressione sul Governo Italiano perché finanzi adeguatamente la ricerca in Italia e porti i fondi per la ricerca a un livello superiore (3%) a quello della pura sussistenza attuali (1%), richiamandolo a fare il proprio dovere in questo settore cruciale per il futuro del paese.
In seguito Giorgio Parisi ha lanciato la petizione su Change.org per aumentare la forza di questa richiesta raccogliendo decine di migliaia di firme.
I dati sui finanziamenti in ricerca e sviluppo in percentuale sul PIL collocano l'Italia agli ultimi posti tra i paesi OECD. Il Sistema Universitario Italiano è da anni sottofinanziato (il fondo di finanziamento ordinario alle università è in continua discesa dal 2009 ad oggi). I fondi per la ricerca di base italiana, distribuiti su base competitiva ai progetti scientifici che sono valutati più validi, sono dieci volte di meno di quelli della Francia.
Nei paesi tecnologicamente avanzati, il benessere è legato fortemente allo sviluppo dell’innovazione. Negli ultimi 15 anni l’Italia ha perso terreno sul fronte della produttività, rispetto ad altre nazioni quali stati Uniti, Germania e Francia. La correlazione tra mancato investimento in ricerca e sviluppo e mancata crescita è evidente e costituisce la principale sfida che il paese deve affrontare per garantire un futuro alle giovani generazioni.
Testimonianze
Parlano di noi
L'iniziativa Salviamo la Ricerca Italiana ha destato l'attenzione della stampa e dei mezzi di comunicazione sociale.
Ecco alcuni esempi:
La legge 133, presentata a giugno ed approvata in agosto, nella quasi totale indifferenza, prevede due disposizioni estremamente pesanti per l'università e la ricerca: la riduzione del 10 per cento della pianta organica degli enti di ricerca e il quasi totale blocco delle assunzioni nelle università per i prossimi anni (un nuovo assunto ogni cinque pensionamenti), con la contemporanea diminuzione dei finanziamenti universitari.
Sono provvedimenti estremamente preoccupanti. L'Italia è attualmente il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda le attività di ricerca e sviluppo. La percentuale di queste attività, rispetto al prodotto nazionale lordo, è di poco più dell'uno per cento, da paragonarsi ad una media europea del due per cento abbondante. Lo scarso impegno dell'Italia in questo settore è ancora più grave se paragonato a quello decisamente superiore dei paesi asiatici emergenti, in particolare della Cina. Questo paese è spesso visto come un pericolo in quanto produce beni di largo consumo a basso costo, facendo concorrenza all'industria italiana; al momento attuale questo non è vero in quanto la nostra industria tende a coprire un settore di qualità più elevata. Tuttavia, se gli attuali rapporti di investimento rimarranno costanti nei prossimi anni, possiamo tranquillamente prevedere un sorpasso da parte della Cina anche nei settori tecnologicamente avanzati, lasciando ben poco spazio anche alle attività industriali di punta.
Né ha senso argomentare che bisogna ridurre queste spese a causa della crisi economica. Al contrario proprio la crisi richiede un maggior intervento dello Stato, ed è ben noto che gli investimenti in ricerca e sviluppo sono i più efficaci. Non solo il governo si muove nella direzione sbagliata, ma quello che è peggio, effettua tagli indiscriminati, indipendentemente dalle reali necessità degli enti di ricerca e delle università. Tagliare tutto un comparto con una stessa proporzione per ciascuna delle sue componenti è il contrario di governare, è irresponsabile incapacità di fare delle scelte. Questo comportamento dei nostri governanti mi ricorda maniera irresistibile quello stigmatizzato da un personaggio del fumetto Dilbert su Linus: "un taglio del dieci per cento del budget di un progetto, è la classica percentuale che si spara anche senza aver pensato ai termini del problema, partendo dall'assunzione che tutto può essere tagliato del 10 per cento senza peggiorare il risultato finale".
Il realtà invece questi tagli indiscriminati peggiorano gravemente la situazione in quanto impediscono alle nuove generazioni di rimpiazzare coloro che andranno in pensione per i prossimi anni, provocando un perdita netta per il paese e un danno ingiusto nei confronti dei giovani ricercatori. Non mi preoccupo per i pochi "fuori classe," i ricercatori di bravura eccezionale: un posto lo trovano sempre, e riusciranno a fare carriera anche in Italia, a meno che non decidano di accettare le offerte più invoglianti di prestigiose istituzioni estere. Mi preoccupano le migliaia di studiosi decisamente migliori della media, che speravano di trovare una sistemazione in Italia degna del loro valore. Ma il governo ha distrutto il giorno della loro assunzione, e se vorranno continuare a fare il loro mestiere, dovranno per forza emigrare.
Questi provvedimenti quindi, oltre ad essere antieconomici, sono chiaramente in contrasto con il dettato della nostra bella Costituzione, che affronta ripetutamente il tema della ricerca scientifica. Tutti conoscono l'articolo 33: "L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento": la scienza è accostata all'arte e ne viene proclamata la libertà. Meno noto è forse l'articolo 9, che appartiene al primo blocco di 13 articoli, che elencano i principi fondamentali. Quest'articolo afferma che "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica." La ricerca scientifica è vista qui come un bene primario, da perseguire per il suo interesse culturale, e non per le sue ricadute economiche; anzi, tra i principi fondamentali non è detto che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo economico. Per finire vorrei ricordare l'articolo 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.". Lo Stato ha quindi il dovere di permettere ai cittadini dotati di talento per la ricerca di svolgere quest'attività in base alle loro capacità.
Io sono fermamente convinto che la reale democrazia di un sistema politico si misura in base alle opportunità concrete che esso è in grado di offrire ai suoi cittadini, e alla possibilità che a ciascuno sia consentito di confrontarsi con tali opportunità. Bisogna assolutamente evitare che nelle carriere accademiche e di ricerca ci siano generazioni fortemente svantaggiate a causa di scelte arbitrarie. Con i provvedimenti della legge 133 i giovani talenti nati trenta-quaranta anni fa hanno sbarrata la possibilità d'accesso alla ricerca e alla carriera universitaria, benché siano capacissimi di dare importanti contributi innovativi. In questo modo si lede in modo insanabile il principio di eguaglianza e il diritto che tutti i giovani devono avere, a prescindere dalla loro fortuita data di nascita, di realizzare le loro scelte, se queste sono commensurabili alle loro capacità. Assumere nuovi ricercatori in base al merito, mediante giusti concorsi, utilizzando con la massima urgenza le risorse a disposizione e trovandone di nuove, è una necessità vitale per garantire il futuro del nostro paese in un mondo che deve affrontare gravi emergenze planetarie, ma è anche un obbligo costituzionale, se vogliamo che la nostra Legge fondamentale non rimanga lettera morta.
Il direttore della Scuola Normale Superiore, Salvatore Settis, scriveva recentemente che un paese che costringe i suoi giovani talenti ad emigrare distrugge il proprio futuro. Gli studenti hanno capito molto bene che questa è la posta in gioco e sono scesi in piazza, hanno occupato le università, hanno organizzato lezioni nelle pubbliche piazze. Difendono il loro futuro, e i docenti non possono che essere con loro.
Sinistra e ricerca:
intervento al congresso nazionale PDS
Giorgio Parisi, 1997
Sono grato dell’occasione che ho di parlare qui, perché vorrei proporvi delle osservazioni concrete che sono condivise da molti di quelli che come me lavorano nel campo della ricerca scientifica.
Il compito della sinistra, una volta al governo, è quello di sfruttare al massimo le potenzialità del paese. La ricerca scientifica, l’Università, la scuola, la cultura sono campi in cui c’è una forte tradizione, ma molte di queste risorse non sono sufficientemente sfruttate.
In molti casi i finanziamenti non sono sufficienti, è triste e noioso ripeterlo ogni volta, ma la quantità di risorse dedicate alla ricerca in Italia è circa la metà (in percentuale) di quella degli altri paesi industrializzati. Lo stato di abbandono delle biblioteche e dei laboratori nella maggior parte delle scuole medie (inferiori e superiori) è sfortunatamente noto a tutti. Tuttavia ci sono altri ostacoli che dovrebbero essere rimossi che non richiedono un impegno soltanto finanziario.
Uno dei mali più gravi che affligge la ricerca italiana è che la dirigenza di molti enti è stata scelta con criteri di appartenenza partitica. Molto spesso si formano cordate di personaggi di dubbia capacità scientifica o manageriale, che, appoggiandosi a partiti o sindacati, riescono a controllare la direzione degli Enti. Presidenti di enti nominati per meriti partitici devono ricambiare i favori ricevuti con nomine clientelari e così via si continua verso il basso per via gerarchica. Certo a nessuno viene proibito di lavorare, ma non posso dimenticarmi nemmeno quella ricercatrice dell’ENEA, il cui superiore diretto gli consigliò qualche anno fa: “Dottoressa, ma perché perde tempo a fare ricerca, pensi piuttosto alla sua carriera, stringendo le giuste alleanze.” In fondo il capo aveva ragione: la ricercatrice ha continuato a far bene il suo mestiere, ma di carriera ne ha fatto ben poca.
Tutto ciò deve finire e il governo dovrebbe per primo dare il buon esempio. Sfortunatamente le prime nomine in ambito scientifico hanno lasciato perplessi. Aspettiamo di vedere che cosa succederà all’Istituto Superiore di Sanità e al CNR per giudicare.
Per cambiare sul serio non basta però nominare un presidente capace. Intervenire seriamente nell’organizzazione degli enti di ricerca solleverà resistenze accanite. La buona volontà non basta. I regolamenti e le strutture degli enti di ricerca debbono cambiare. Non è un caso che l’ente di ricerca, che a detta di molti funziona meglio, l’INFN, ha i direttori dei singoli laboratori eletti dai ricercatori e tecnici; il presidente dell’ente è eletto da un consiglio direttivo formato dai direttori dei laboratori e da alcuni rappresentanti del governo. Democratizzare l’organizzazione degli enti di ricerca può essere un primo passo.
È inoltre assolutamente necessario disporre di criteri oggettivi per poter giudicare il grado di funzionamento delle varie strutture. Esiste un metodo semplice seguito in molti paesi, ma qui in Italia quasi completamente sconosciuto, quello dei comitati di valutazione. Conosco bene come funziona in quanto ho fatto parte di comitati di valutazione di alcuni laboratori esteri. Un certo numero di esperti, anche stranieri, visita il laboratorio per qualche giorno, sente alcune relazioni, parla (anche a quattr’occhi) con i ricercatori, discute con il direttore e alla fine stila un rapporto pubblico su quello che ha visto o sentito. Questo viene fatto non solo per i singoli laboratori ma anche per quanto riguarda grandi strutture tipo enti di ricerca.
Sapere, al di là delle apparenze, quali sono le strutture realmente funzionanti e quali quelle in decadenza non risolve il problema, ma è un punto di partenza per poter intervenire. Il governo ha tutti gli strumenti per farlo: proceda rapidamente consultandosi però con quelli che fanno veramente ricerca oggi, non con quelli che fanno finta di farla, l’hanno fatta venti anni fa o non l’hanno mai fatta.
La selezione dei nuovi professori universitari è un problema molto delicato; accade sempre più spesso che i vincitori dei concorsi non siano scelti in base alle loro capacità, ma secondo amicizie o parentele con personaggi accademicamente potenti. In questo modo le potenzialità delle nuove generazioni sono umiliate. Discutere a fondo come eliminare questo malcostume porterebbe via molto tempo. Mi limiterò soltanto a dire che un intervento solo su i meccanismi dei concorsi avrebbe probabilmente un effetto limitato: fatta la legge, trovato l’inganno. È necessario piuttosto far in modo che sia convenienza dei singoli professori avere colleghi i più capaci possibili. Un meccanismo potrebbe essere legare i finanziamenti ai dipartimenti ad una verifica non formale della qualità. Certo è che la situazione non cambierà se i commissari dei concorsi universitari continueranno a sentirsi onnipotenti e non dovranno rispondere delle loro scelte al resto della della comunità scientifica.
Anche la didattica nella scuola (università compresa) è un punto dolente. Molti di noi si ricordano professori eccellenti, che si dedicavano con grande passione all’insegnamento e professori invece che cercavano di lavorare il meno possibile. Non solo tutte e due le categorie sono pagate ugualmente, ma addirittura non esiste nessun criterio di valutazione attendibile del vero valore didattico. E non può esistere un tale criterio finché gli studenti saranno muti e non verranno consultati. In altri paesi è una procedura standard alla fine dell’anno far riempire agli studenti questionari sui corsi, chiedendone i pregi e i difetti e far assegnare punteggi differenziali per i vari parametri (per esempio: chiarezza didattica, interesse della materia, possibilità di avere spiegazioni). I risultati dei questionari sono pubblici. In altri paesi, per esempio in Svezia, ci sono comitati di valutazione didattica che stilano la loro relazione basandosi su interviste fatte ad alcuni studenti, il cui nome non viene rivelato.
Così si da un meritato riconoscimento pubblico agli insegnanti che si dedicano al loro lavoro e si stimola l’amor proprio degli altri insegnanti. Bisogna anche dire che spesso gli insegnanti davvero non si rendono conto dei loro difetti. L’anno scorso nel mio corso di laurea è stato distribuito agli studenti un questionario da riempire e restituire anonimo: mi sono reso conto che le mie lezioni avevano difetti che non mi sarei mai aspettato, per esempio ero lento e ripetitivo sui passaggi facili e invece andavo come un razzo sui passaggi difficili. Sapere l’effetto che fai agli altri è sempre una cosa utile.
Tutto ciò può sembrare un dettaglio, ma in realtà ha un significato politico molto profondo. Uno dei punti fermi che a mio avviso separa la sinistra dalla destra è la convinzione che lo stato deve essere in grado di erogare servizi di buona qualità a tutti i cittadini, in maniera di garantire un minimo livello per tutti. Lo stato sociale oggi è sotto attacco e non è difficile capire il motivo: se si guarda alla qualità del servizio erogato in molti ospedali pubblici, viene la voglia di pensare che i soldi dati allo stato per questo scopo sarebbero stati investiti molto meglio nel privato. La sinistra può vincere la sua battaglia solo se dimostra che i servizi pubblici a tutti i livelli possono essere gestiti con la stessa efficacia di quelli privati e che la parola “pubblico” non è il sinonimo di “scadente”. Per ottenere questo risultato è necessario che i cittadini percepiscano concretamente che le strutture pubbliche sono al loro servizio, che la loro opinione su quello che funziona e su quello che quello che va cambiato è importante, conta nel processo decisionale, (mentre finora hanno precisamente la senzazione contraria). Non bisogna mai dimenticare che gli utenti sono i più qualificati per osservare i disservizi e proporre cambiamenti.
La trasparenza, l’accesso del pubblico a dati attualmente riservati può avere grandi effetti benefici. Fatemi fare l’esempio di un episodio avvenuto pochi anni fa nello stato di New York. Dopo grandi esitazioni e accanite resistenze si è deciso di rendere pubblici i dati di tutti gli ospedali sulle operazioni al cuore per ciascuna categoria, tentativi, successi e fallimenti. È stato un piccolo terremoto; è risultato che alcuni ospedali avevano un tasso di mortalità, sullo stesso tipo di operazioni, fino a tre volte superiore a quella dei migliori ospedali. Paradossalmente l’utilità maggiore non è stata tanta per i pazienti, che potevano in questo modo scegliere l’ospedale migliore, ma per i dirigenti degli ospedali peggiori che confrontando i loro dati con quelli degli ospedali migliori hanno dovuto prendere atto della situazione disastrata. Il risultato è stato che gli ospedali peggiori hanno radicalmente cambiato la loro organizzazione interna, hanno selezionato i chirurghi, e il tasso di mortalità è decisamente diminuito.
Passare da uno stato che controlla il cittadino ad un cittadino che giudica e valuta lo stato non è un operazione indolore. Le resistenze sono tante e non è facile vincerle mediate un decreto. Bisogna cambiare mentalità: l’azione del partito, con la sua diffusione capillare, è indispensabile per vincere questa battaglia.